22 marzo 2020 - 07:56

Coronavirus, perché tanti morti in Italia? Molti anziani, pochi tamponi

La letalità del Covid-19, in Italia, è del 9%; il 12 in Lombardia. In Cina era il 3,8%. Cosa è successo? Un elenco di possibili cause

di Silvia Turin

Coronavirus, perché tanti morti in Italia? Molti anziani, pochi tamponi
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Sono 53.578 i casi positivi confermati in Italia secondo il bollettino della Protezione Civile diramato sabato sera, 17.708 i pazienti in ospedale, di cui 2.857 in terapia intensiva. I morti sono saliti a 4.825. In Europa, la Spagna totalizza oltre 25mila positivi con 1.375 decessi, la Germania ora viene subito prima degli U.S.A. con 21.828 casi confermati (ha scavalcato l’Iran) ma “solo” 75 morti. Cosa succede in Italia? I morti in Cina sono stati 3.259 con un tasso di letalità del 3,8%, secondo il report finale della missione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità di ritorno dal Paese asiatico. In Italia lo stesso tasso è al 9% (il 12,1% in Lombardia), mentre quello di Wuhan era al 5,8% e il resto della Cina si è fermato allo 0,7%. Come si spiega la differenza rispetto a tutti i Paesi del mondo? I fattori che concorrono al calcolo del dato numerico sono molti. Bisogna considerare che il tasso di letalità (che non è la mortalità) è il numero di decessi dovuti a COVID-19 diviso per il numero totale di casi confermati di infezione da coronavirus, un valore che dipende, quindi, dai soggetti positivi tracciati.

Numeri sottostimati

La prima ipotesi interpretativa è che in Italia i contagiati siano molti di più: un studio pubblicato su Science calcola che per ogni positivo ce ne siano almeno 5-10 non censiti. Un modello matematico firmato da Livio Fenga dell’Istat mostra a sua volta come il 12 marzo rispetto ai 12.839 casi denunciati in Italia, le persone infette dal SARS-CoV-2 potrebbero essere state 105.789. Se davvero i soggetti contagiati fossero fino a dieci volte tanto, la percentuale di letalità calcolata rispetto all’intera nazione scenderebbe su valori vicinissimi a quelli della Cina continentale.

Quanti tamponi si eseguono

«Il tasso di letalità in Italia è più elevato perché, oltre ad avere una popolazione più anziana, non si stanno testando (e di conseguenza isolando) i casi più lievi», ha dichiarato recentemente il vice direttore generale dell’Oms, Bruce Aylward. I positivi confermati sono i soggetti che hanno fatto un tampone. Quanti test si eseguono in Italia? Nei giorni passati la questione è stata oggetto di dibattito, visto che questo numero determina l’andamento dell’epidemia. In ogni Paese i tamponi sono stati effettuati con direttive diverse e variabili, spesso a seconda dell’urgenza del momento. Così in Italia (come in Cina) all’inizio si facevano test a tutte le persone “sospette” di contatto con casi positivi o a chi arrivava da zone “a rischio” (anche asintomatici), poi si è passati (dopo circa una settimana) a farli solo alle persone con sintomatologia seria, che sono però anche quelle più suscettibili di morte. Da allora, le percentuali sono cambiate e la letalità ha cominciato a crescere. C’è anche da ricordare che nelle regioni che sperimentano il maggior stress sanitario (Lombardia ed Emilia-Romagna), dove la letalità è “fuori scala”, si fanno meno tamponi per contagiati rispetto al resto d’Italia. In assoluto, però, i test pro capite non sono così pochi, al 21 marzo oltre 233mila: l’Italia è il Paese al mondo con più tamponi per milioni di persone, superata solo dalla Corea del Sud.

Il focolaio ha intaccato gli ospedali

La spiegazione del triste primato del nostro Paese potrebbe anche riguardare come si contano i decessi: i morti avevano quasi sempre patologie concomitanti, qual è stata la causa reale della fine? Altra aggravante, la grandezza del focolaio Lombardo: 10 paesi dove gli spostamenti lavorativi sono notevoli, con un interessamento che ha intaccato gli ospedali, che, a loro volta, hanno fatto da amplificatori.

L’età media elevata e le patologie

Ennesima variabile rispetto ad altri Paesi è l’età media degli Italiani molto elevata: siamo secondi in Europa, in Cina è molto più bassa. In Corea del Sud, Paese che viene preso come l’esempio più “virtuoso” (con 102 morti su 8.799 casi e letalità allo 0,01%), il virus ha contagiato in maggioranza giovani donne: il 30% dei positivi si trova nella fascia 20-29 anni e il 62% è donna (in Italia il 41,1%). In più, solo il 3% di tutti i casi confermati nel Sud Corea aveva almeno 80 anni. Da noi il 36,3% del totale ha più di 70 anni (fonte, Istituto Superiore di Sanità al 20 marzo). Una popolazione più anziana significa più persone deboli e a rischio di aggravarsi, col passare degli anni, infatti, compaiono altre malattie (le cosiddette “comorbilità”): sono queste a essere il fattore di rischio maggiore per i malati di COVID-19. Problemi cardiovascolari, ipertensione, diabete: secondo l’ISS i deceduti che non avevano patologie preesistenti rappresentano l’1,2% del totale, il 48,6% aveva almeno tre patologie in corso.

I polmoni dei fumatori

Altro fattore concomitante: visto che l’esito più grave del COVID-19 è una grave e insidiosa polmonite, il numero dei decessi potrebbe riflettere anche lo “stato dei polmoni” degli italiani. Pensiamo alle polveri sottili della Pianura Padana, ma anche (specie in persone di una certa età) alla prevalenza di fumatori nei casi più gravi. Non ci sono ancora studi relativi, ma il fatto che muoiano più uomini che donne potrebbe essere dovuto a questa abitudine e sicuramente chi fuma ha maggiore probabilità di diventare un caso grave.

Interazione tra le generazioni

Infine, alcune analisi ipotizzano che le differenze nelle interazioni sociali svolgano un ruolo chiave nella diffusione dell’epidemia e, di conseguenza, nella letalità. Due studi, rispettivamente dell’Università di Oxford e di Bonn, arrivano alla stessa conclusione: in Italia gli anziani si prendono spesso cura dei nipoti e, in genere, hanno contatti frequenti con i propri figli e i rispettivi nuclei familiari. La percentuale di persone tra i 30-49 anni che vive con i genitori è inferiore al 5% in Francia, Svizzera e Paesi Bassi; invece in Giappone, Cina, Corea del Sud e Italia ci sono quote superiori al 20%. Le numerose interazioni potrebbero aver aggravato l’epidemia in Italia, favorendo il contagio tra generazioni: figli adulti e nipoti (che sono più spesso asintomatici) avrebbero fatto ammalare inconsapevolmente gli anziani genitori.

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